Nov 23 22

DIETA CHETOGENICA

Giorgia Bacco

Sono sempre più frequenti i pazienti che richiedono una dieta chetogenica con lo scopo di perdere peso,
semplicemente perché adottando questo stile alimentare si tende a perdere peso più velocemente rispetto ad una dieta sana ed equilibrata.


Ma cerchiamo di capire meglio di cosa si tratta
La dieta chetogenica consiste in un regime alimentare prevalentemente ricco di grassi (70-80% delle calorie totali della dieta) e un ridottissimo (quasi nullo) apporto di carboidrati con lo scopo di indurre l’organismo ad utilizzare grassi e chetoni come fonte energetica.
Via libera quindi a carni grasse, formaggi, grassi di origine animale (panna, burro etc), oli vegetali, frutta
secca a guscio, semi, uova, pesce e tofu.


Assenti invece tutte le forme di carboidrato (anche complesso), legumi, frutta e verdure amidacee.
Il concetto alla base della dieta chetogenica è il raggiungimento di uno stato di chetosi metabolica che si
innesca nel momento in cui il corpo non ha più zuccheri a disposizione dai quali trarre energia. Vengono per questo utilizzati i grassi e i corpi chetonici prodotti dal fegato per compensare queste carenze.
È chiaro quindi il motivo per cui tutti coloro che necessitano di perdere peso vogliano affidarsi ad un simile regime alimentare: si mangiano solo alimenti grassi (e quindi appetibili), non bisogna mangiare frutta e verdura (che di solito sono alimenti meno graditi dalla maggioranza delle persone) e si perde peso in fretta.


Quello che però i sostenitori di questo regime alimentare non tendono a sottolineare (a mio parere per
mero interesse economico e mancato senso etico) è il fatto che un simile approccio comporta non solo una serie di effetti collaterali per nulla trascurabili ma risulta anche poco sostenibile nel lungo termine in
quanto anche solo una piccola assunzione di carboidrati interrompe il processo di chetosi e quindi
comporta un’interruzione del processo di dimagrimento e un più facile e veloce recupero dei chili persi.
Nel dettaglio, i più probabili effetti collaterali sono i seguenti:
1) “ketoflu”: serie di sintomi tipici dell’assenza di carboidrati nella dieta che includono – mal di testa,
affaticamento, tachicardia, confusione, alitosi, disturbi del sonno, nausea, crampi muscolari
2) Disidratazione e, alla lunga, conseguente disfunzioni renali: Entrando in chetosi, l’organismo è
naturalmente portato ad espellere una maggiore quantità di liquidi. Tale processo, soprattutto se
protratto nel tempo, può causare disidratazione.
3) Problemi cardiaci: La disidratazione comporta una carenza di elettroliti, come per esempio sodio,
magnesio e potassio. Una prolungata carenza di elettroliti potrebbe minacciare il funzionamento
cardiaco comportando aritmie
4) Problemi intestinali o digestivi: l’elevato apporto di grassi può determinare rallentato svuotamento
gastrico e nel breve termine episodi di diarrea dovuti al fatto che il fegato deve rilasciare grosse
quantità di bile per permettere la metabolizzazione del grasso e che stimola la motilità intestinale;
nel lungo termine, invece, la quasi totale assenza di fibre (derivanti da frutta, verdura, legumi e
cereali integrali) determina stitichezza
5) Carenze vitaminiche dovute all’assenza di verdura, frutta e legumi
6) Sbalzi d’umore: le diete low carb possono causare una carenza nella produzione di serotonina, un
neurotrasmettitore implicato nella stabilizzazione dell’umore, aumentando il rischio di sviluppare la
fame nervosa.


È bene tenere presente che lo stato di chetosi si manifesta naturalmente in persone malate e per questo
motivo la dieta chetogenica è stata anche denominata da alcuni esperti come “make-yourself-sick-diet”
(letteralmente “dieta che ti rende malato”).

Altro motivo per cui questo tipo di dieta merita questo appellativo è che prevede l’eccessivo consumo di
carne grassa e formaggi, alimenti che contribuiscono all’insorgenza delle più comuni cause di morte e
disabilità della nostra società.
Ecco spiegato il motivo per cui nessun professionista del settore sanitario dovrebbe incoraggiare questa
tipologia di regime alimentare per il benessere e la salvaguardia dello stato di salute dei pazienti e allo
stesso tempo perché è estremamente restrittiva, sbilanciata, ferrea e poco sostenibile sia fisicamente che socialmente.
Di contro, una dieta bilanciata e varia non solo permette di rispettare a pieno tutti i processi fisiologici
dell’organismo senza doverlo necessariamente sottoporre ad un forte stress, ma permette anche di
sostenere questo stile alimentare nel lungo termine senza compromettere lo stato di salute.

A cura della nostra nutrizionista Ilaria Carandente

Nov 2 22

Mal di testa ed emicrania – quando pensare ad un trattamento farmacologico

Giorgia Bacco

L’emicrania, una forma di mal di testa primario, ovvero non causato da patologie sottostanti,
rappresenta la terza malattia più comune nel mondo. Colpisce oltre un miliardo di persone, di
cui circa 10 milioni nel Regno Unito. L’emicrania e’ tre volte piu comune nelle donne che
negli uomini e puo’ insorgere a qualsiasi eta’, anche se piu comunemente inizia con la
puberta’. L’emicrania e’ comune anche nei bambini, nel qual caso puo’ presentarsi, oltre che
con la cefalea, anche con disturbi gastrointenstinali, rendendo la diagnosi piu’ difficile.
Anche se le cause dell’emicrania ancora non si conoscono del tutto, sappiamo che la malattia
e’ caratterizzata da una predisposizione genetica che può essere esacerbata da fattori
scatenanti esterni (come il sonno, lo stress, e la fame) e da un’alterazione del cervello
nell’elaborazione degli stimoli sensoriali e del dolore.


L’attacco di emicrania e’ caratterizzato da dolore di tipo medio-severo, che va tipicamente
dalle 4 ore ai tre giorni, spesso unilaterale e che puo’ coinvolgere tutta la testa. Associato al
dolore, durante l’attacco i pazienti tipicamente presentano:
-fastidio per le luci, i rumori e gli odori forti
-nausea e/o vomito
-senso di fatica e spossatezza, e peggioramento del dolore con il movimento
-disturbi della concentrazione, dell’umore e dell’appetito, vertigini, e molti altri


In circa un terzo delle persone con emicrania, gli attacchi possono essere preceduti o
accompagnati da un fenomeno noto come ‘aura’ caratterizzato tipicamente da disturbi
transitori della visione, sensitivi e del linguaggio.
La terapia dell’emicrania si suddivide in terapia acuta, o dell’attacco, e terapia preventiva.
Con la terapia dell’attacco si agisce sul dolore quando e’ presente, e gli altri sintomi acuti. E’
importante, nella terapia acuta, tenere sempre a mente il rischio della ‘medication overuse
headache’, in cui un eccesso di farmaci dell’attacco rende, a lungo andare, gli attacchi piu’
frequenti. Si consiglia quindi sempre di evitare un uso di analgesici o farmaci dell’attacco
superiore ai 2 giorni al mese.
Lo scopo della terapia preventiva, invece, è quello di diminuire la quantità di attacchi, e viene
consigliata tipicamente quando questi superano una frequenza di tre-quattro al mese o quando
diventano troppo debilitanti per il paziente.
Un’adeguata terapia preventiva, che si puo’ effettuare con diversi tipi di farmaci, può evitare
la cronicizzazione della malattia. Questa avviene quando gli attacchi sono talmente frequenti
da presentarsi in oltre la metà dei giorni del mese. La terapia dell’emicrania può anche
avvalersi di misure non farmacologiche, che vanno valutate individualmente e adattate a
ciascun paziente.
Negli ultimi anni, numerosi nuovi farmaci sono stati creati e studiati specificamente per la
terapia dell’emicrania, con un successo molto alto in numerosi pazienti. La maggior parte di
essi sono diretti a bloccare una molecola chiamata ‘Calcitonin-gene related peptide’, che e’
coinvolta nella generazione del dolore di questo tipo di cefalea.

A cura della Dott.ssa Francesca Puledda

Oct 19 22

Che patologia è il “vaginismo”?

Giorgia Bacco

Il vaginismo in realtà è un termine obsoleto che veniva usato per indicare la condizione clinica di impossibilità ad avere rapporti sessuali dovuta ad uno spasmo dei muscoli presenti attorno alla vagina. Da qualche anno questo disturbo, assieme alla dispareunia, ovvero dolore durante i rapporti sessuali, è stato inglobato nel cosiddetto “Dolore Genito-Pelvico e della Penetrazione” (DGP-P). Alla base di questa scelta ci sono stati diversi motivi, tra i principali il fatto che lo spasmo involontario è presente in solo un quarto dei casi, che l’elemento principale sembra essere una paura della penetrazione vaginale, che vi è una grande variazione tra le pazienti nel grado di penetrazione raggiungibile e infine, che spesso fosse impossibile differenziare tra dispareunia e vaginismo.

Quasli sono i sintomi del vaginismo?

«Secondo i nuovi criteri del DSM-5, per fare diagnosi di DGP-P è sufficiente che uno dei seguenti sintomi sia presente in maniera ricorrente causando difficoltà per almeno sei mesi:

  • dolore pelvico o vulvo vaginale durante la penetrazione vaginale o tentativi di penetrazione;
  • marcata ansia o paura di provare dolore vaginale o pelvico connesso alla penetrazione vaginale;
  • marcata tensione dei muscoli del pavimento pelvico durante i tentativi di penetrazione vaginale».

Quali sono le cause?

Le cause di questo disturbo sono molte e varie. Possono essere sia di origine organica (da diverse problematiche ginecologiche, urologiche, neurologiche o muscolari) o psicologiche (depressione, ansia, abusi o stupro, etc.) senza dimenticare di considerare le dinamiche relazionali e sociali.

Quante donne soffrono di questa patologia?

La prevalenza di questo disturbo non è nota con precisione, data la variabilità di presentazione e visto spesso lo stigma nel chiedere aiuto. Si stima possa raggiungere il 15% della popolazione dotata di vagina.

Come bisogna affrontare una patologia del genere?

Sicuramente il primo passo è sempre quello di chiedere l’aiuto di un professionista. E’ spesso necessaria una visita medica per poter differenziare se il disturbo abbia una componente organica, psicologica o mista. Il trattamento varierà in base alle cause, in alcuni casi può essere indicata una riabilitazione del pavimento pelvico tramite esercizi e l’utilizzo di dilatatori vaginali. A questi è utile associare una terapia sessuologica di supporto per affrontare le paure associate alla penetrazione.

Come affrontare il problema nella coppia?

In generale la percentuale di guarigione nei pazienti affetti da questo disturbo è elevata, ma può richiedere diversi mesi, quindi è importante fare in modo che questo non abbia un impatto negativo su eventuali relazioni. E’ importante parlare con eventuali partner affinché non si sentano esclusi o ancora peggio la causa del voler evitare rapporti sessuali. Avere la collaborazione del partner è fondamentale spesso per la risoluzione del problema. E mentre si lavorerà coi professionisti adeguati, è importante ricordarsi che la sessualità non è fatta solo di penetrazione vaginale e questa condizione può essere uno spunto per esplorare il proprio corpo e quello del partner scoprendo nuovi modi di provare e dare piacere ad esempio tramite carezze, stimolazione orale, manuale o anale e l’utilizzo di sex toys di vario tipo.

Oct 5 22

DECONGESTIONANTI NASALI: QUALI SONO E COME AGISCONO

Giorgia Bacco

Sono tutti quei principi attivi usati per contrastare la congestione nasale.
Possono essere in forma di spray o gocce nasali.
In Inghilterra sono reperibili senza ricetta medica (over the counter) e sono
noti come “sinusitis nasal relief” oppure “blocked nose relief”.
I prinicipi attivi piu’ comuni sono nafazolina, efedrina, pseudoefedrina,
ossimetazolina, fenilefrina ed altri ancora.
Agiscono sulla mucosa nasale molto velocemente con una attivita’
simpaticomimetica diretta inducendo una costrizione della muscolatura liscia
dei vasi sanguigni presenti a livello della mucosa nasale. Cosi’ facendo riducono
il flusso locale di sangue diminuendo anche il gonfiore che caratterizza lo stato
di congestione nasale.
Il beneficio e’ immediato ,ma bisogna tenere a mente quali possono essere gli
effetti collaterali di questi farmaci.
EFFETTI COLLATERALI DEI DECONGESTIONANTI NASALI
Sono generalmente farmaci ben tollerati, ma se ne consiglia l’utilizzo in eta’
adulta soltanto.
L’utilizzo dovrebbe essere limitato a 7-10 giorni al massimo, in caso di forti
raffreddamenti, allergie, sinusiti, poliposi nasale ed apnee notturne.
L’utilizzo prolungato e l’abuso dei suddetti farmaci puo’ portare alla
assuefazione con una sorta di effetto paradosso che provoca un
peggioramento della sintomatologia del naso chiuso.
Altri effetti collaterali, neanche tanto inconsueti, sono la cefalea, l’
ipertensione arteriosa, la tachicardia, la secchezza nasale con formazione di
croste dolorose, rla inite medicamentosa fino alla perforazione del setto nasale
nei casi piu’ estremi.

Una volta instaurata la dipendenza da questi farmaci, tornare indietro e’ molto
difficile ed e’ sempre consigliabile rivolgersi allo specialista otorinolaringoiatra.

CONTROINDICAZIONI DEI DECONGESTIONANTI NASALI

Gravidanza, cardiopatie (ipertensione in primis) , eta’ pediatrica, glaucoma,
ipertiroidismo, emicrania sono le piu’ frequenti, ma e’ sempre bene leggere il
foglietto illustrative all’interno della confezione o chiedere al farmacista.

A cura della nostra dott.ssa Chiara Cerovac, esperta otorinolaringoiatra

Sep 6 22

Come riconoscere i sintomi di broncospasmo (wheezing)

Giorgia Bacco

Se il bambino respira affannosamente, tossisce spesso e produce un rumore espiratorio simile a un sibilo è probabile che stiamo assistendo a un broncospasmo (wheezing). Si tratta di un “fenomeno” piuttosto comune, in particolare in eta’ prescolare. A seconda dell’età, le cause più frequenti di broncospasmoo (wheezing) sono la bronchiolite, il wheezing virale (bronchite asmatica) e l’asma. Vediamo allora come riconoscerli, qual è la cura consigliata e, quando possibile, come fare prevenzione.

Il broncospasmo è causato dalla contrazione della muscolatura liscia della parete delle vie aeree. I bimbi più piccoli sono più predisposti al broncospasmo principalmente (ma non solo) perchéé il calibro delle loro vie aeree è più’ piccolo. 

Tra i sintomi associati con il broncospasmo nei bimbi ci sono:

  • tosse;
  • difficoltà respiratoria (dispnea) e respiro veloce;
  • emissione di un fischio sibilante in fase di espirazione;
  • senso di costrizione toracica (meno frequente).

La bronchiolite è un’infezione virale comune nel primo anno di vita che causa infiammazione delle piccole vie aeree (bronchioli) dei polmoni. Inizia tipicamente con i sintomi di un raffreddore, a cui fanno seguito nel giro di pochi giorni la comparsa di tosse, wheezing e respiro affannoso. Nella maggior parte dei casi si manifesta in forma lieve e, dopo valutazione medica, può essere gestita a domicilio stando attenti a preservare l’idratazione del piccolo (pasti più’ piccoli ma più frequenti se necessario) e ricorrendo nuovamente a valutazione medica 

in caso di peggioramento dei sintomi o scarsa alimentazione. 

Il wheezing virale, o bronchite asmatica, è un’infezione virale che colpisce i bimbi in eta’ prescolare (prima dei 6 anni) e causa infiammazione dei bronchi. Si presenta generalmente con i sintomi di raffreddore e respiro affannoso e sibilante (wheezing). A differenza della bronchiolite, il wheezing virale risponde a terapia broncodilatatoria con salbutamolo via puff inalatorio o aerosol, mentre nelle forme più severe può essere necessario somministrare un cortisonico orale. È necessario che il bimbo sia valutato da un medico (specialmente se e’ il primo episodio) e la visita deve urgente (Pronto Soccorso) se il bimbo respira molto rapidamente e/o ha affanno significativo. In questi casi è talvolta necessario il ricovero ospedaliero. 

Una proporzione molto minoritaria di bambini in eta’ prescolare avrà sintomi di wheezing non solo nel corso di infezioni virali / raffreddori, ma anche quando sta bene o durante l’esercizio. In questi bambini è necessario talvolta avviare una terapia con steroide inalatorio (usato in aggiunta al salbutamolo durante gli episodi di wheezing o come terapia preventiva) e/o anti-leucotrienico orale. Inoltre, una parte di questi bambini evolverà in eta’ scolare in asma allergico. 

L’asma allergico è la causa più frequente di broncospasmo in eta’ scolare. In questi casi c’è un’infiammazione cronica dei bronchi, che può essere esacerbata dall’esposizione ad un allergene verso cui si è sensibilizzati o ad altri tipi di stimoli (e.g. esercizio, contatto con aria fredda, fumo passivo, risata o pianto intensi etc). Il trattamento si basa generalmente sull’utilizzo di broncodilatatori a breve o lunga durata d’azione e di steroidi inalatori. 

In termini di prevenzione, è molto importante evitare l’esposizione al fumo passivo, in quanto il fumo è un forte irritante delle vie aeree. Similmente, l’inquinamento ambientale può contribuire a peggiorare i sintomi di broncospasmo. 

Nei soggetti con asma allergico è fondamentale individuare a cosa si è allergici attraverso specifici test diagnostici (e.g. skin prick tests) e limitare, per quanto possibile, l’esposizione all’allergene in questione (e.g. misure anti-acaro in casa per chi è allergico alla polvere). Infine, limitare la presenza di umidità e/o muffa in casa sono altre misure che aiutano ad ottenere un miglior controllo dell’asma.

Ne abbiamo parlato con il nostro Pediatra, il Dott. Michele Arigliani

Aug 9 22

Cosa fare per limitare il fastidio alle orecchie nei bambini quando si va in aereo 

Giorgia Bacco

Ne parliamo con il Pediatra Il Dott. Michele Arigliani

A che età il primo volo? Gli faranno male le orecchie? Che faccio se piange? Sono tanti i dubbi che assillano i neogenitori quando devono programmare una vacanza che richiede l’aereo.

Un bimbo piccolo, anche di pochi mesi, può volare in aereo? Sono interrogativi frequenti in tempi di viaggi, quando mamma e papà devono programmare una vacanza.

Se non ci sono problemi di salute, anche un neonato può affrontare un volo. Per i bimbi nati a termine, si raccomanda generalmente di attendere il raggiungimento di almeno 41 settimane di eta’ gestazionale. Non esistono in generale controindicazioni assolute per la pressurizzazione. 

Il motivo per cui sembra che le orecchie scoppino è il cambio di pressione in cabina nelle fasi di decollo e atterraggio (specialmente la seconda). Quando la pressione presente nell’orecchio e quella dell’ambiente circostante sono diverse, si ha una sensazione di otturazione temporanea delle orecchie che, in alcuni casi, può portare a un vero e proprio dolore.  Il dolore sarà più’ intenso se c’è una forte congestione o un’otite in corso. In caso di otite batterica, si può viaggiare se l’infezione è già in trattamento antibiotico. E’ consigliabile in questi casi assumere un analgesico (e.g. ibuprofene) 1 ora prima della partenza. 

Se per gli adulti è noto che bisogna simulare uno sbadiglio, deglutire o soffiare con il naso e la bocca chiusi (manovra di Valsalva) per permettere l’apertura delle tube di Eustachio (condotti che connettono l’orecchio medio al rinofaringe) e alleviare il fastidio, quando si tratta di bambini, questo diventa più complicato.

Piccoli trucchi per i nostri bambini durante la fase di discesa e atterraggio:

1) Offrire fluidi da bere (incluso allattamento per i più’ piccoli): la deglutizione mantiene le tube di Eustachio, limitando il fastidio.

2) Succhiare il ciuccio, una caramella o, per i bimbi dai 6 anni in su, masticare un chewing gum 

3) Se, invece, si ha già una congestione in corso, è preferibile consultare il medico e, se indicato, somministrare al piccolo un spray di soluzione salina o, nei più grandi, un decongestionante nasale prima del volo.

4) Casomai il dolore dovesse persistere per molte ore dopo l’atterraggio, è opportuno fare una visita medica per stabilire se ci sono state eventuali lesioni del timpano, sebbene questa sia un’eventualità molto rara.

Aug 2 22

Tiroide e gravidanza, quali sono i rischi di intraprendere una gravidanza con un problema tiroideo misconosciuto?

Giorgia Bacco

Chi ha problemi di tiroide può avere figli? 

Non è assolutamente vero che in caso di malattia tiroidea non si possa avere una gravidanza. Le malattie tiroidee vanno identificate per tempo e, quando necessario, curate. Così facendo non ci sono ostacoli per una normale fertilità e decorso della gravidanza. 

Ho un ridotto valore di TSH nel primo trimestre, ho una disfunzione tiroidea? 

Nel primo trimestre, l’HCG (gonadotropina corionica), prodotta dalla placenta, stimola il recettore per il TSH, aumentando la produzione degli ormoni tiroidei con conseguente abbassamento del livello sierico del TSH. Quindi, durante la prima parte della gestazione, si assiste ad una fisiologica riduzione del TSH in assenza di patologie tiroidee.  

Cosa causa ipotiroidismo in gravidanza? 

L’ipotiroidismo in gravidanza è in genere su base autoimmune (tiroidite di Hashimoto), una condizione in cui il sistema immunitario produce, per errore, anticorpi contro la stessa ghiandola tiroidea portandola all’esaurimento funzionale. Alla tiroide materna, soprattutto nei primi tre mesi di gestazione, è richiesto un lavoro ulteriore in quanto il feto non ha la propria tiroide. Anche condizioni di tiroidite con normale funzione o ipotiroidismo lieve possono quindi evolvere in ipotiroidismo conclamato già nelle prime settimane. 

Che problemi può dare l’ipertiroidismo in gravidanza? 

L’ipertiroidismo in gravidanza è generalmente una condizione rara.  In caso di ipertiroidismo su base autoimmune (Morbo di Basedow o Graves), il rischio maggiore per il feto è di sviluppare ipertiroidismo in seguito al passaggio degli anticorpi stimolanti. L’ipertirodismo in gravidanza, se non trattato, può avere conseguenze negative sia per la madre che per il feto.  

Quando trattare l’ipotiroidismo in gravidanza? 

Sarebbe importante riconoscere una tireopatia autoimmune prima del concepimento. Sono di solito necessari un prelievo del sangue con esami di funzione tiroidea (FT4 e TSH) e anticorpi (Anti TPO e TG). Le condizioni di ipotiroidismo clinico e subclinico dovrebbero essere trattate con tiroxina già prima del concepimento. Le tiroiditi con normale funzione dovrebbero ripetere un esame di funzione tiroidea nelle prime settimane di gravidanza per valutare la necessità di un trattamento con Tiroxina. Un normale apporto di ormoni tiroidei previene anomalie dello sviluppo sia scheletrico che del sistema nervoso centrale del feto. 

Come curare l’ipertiroidismo in gravidanza? 

Il trattamento di scelta per l’ipertiroidismo in gravidanza è rappresentato dalla terapia con farmaci tireostatici soprattutto il propiltiouracile (PTU) (Propycil).  

Che ruolo ha l’ecografia della tiroide in gravidanza? 

Può essere utile effettuare anche una ecografia della tiroide per valutare la morfologia della ghiandola. Questa è un completamento importante sia nel caso di sospetta ipo o iperfunzione. Permette inoltre di valutare le dimensioni di eventuali noduli tiroidei che durante la gravidanza possono incrementare di volume a cause del fisiologico incremento della richiesta ormonale.  

Jul 26 22

Dieta estiva: 10 consigli della nutrizionista per una alimentazione corretta

Giorgia Bacco

1)Come ci si deve comportare in vista delle vacanze? Non dovremmo fare distinzione tra inverno ed estate per come comportarci con l’alimentazione. Sicuramente, se ancora non si e’ cominciato a star attenti alla propria dieta e salute, l’arrivo dell’estate e delle vacanze puo’ essere un incentivo per farlo. Bisogna iniziare con il seguire un’alimentazione sana ed equilibrata adatta al proprio fisico e alle proprie esigenze.

2) Quali cibi dobbiamo preferire e quali sono invece da evitare? Frutta di stagione, verdure, cereali integrali, pesce e carne magra sono gli alimenti da preferire ed alternare in maniera equilibrata durante le proprie giornate. 

3) In vacanza posso fare l’aperitivo?Quali sono i consigli? Tutto si può fare con moderazione. Il vino e il prosecco sono tra gli alcolici meno calorici quindi un bicchiere di uno di questi può rappresentare un aperitivo da fare in sostituzione dello spuntino ogni tanto. 

4) Quali sono le soluzioni migliori per un piatto estivo leggero e completo? Un piatto che abbia la giusta combinazione e proporzione di nutrienti (carboidrati, grassi e proteine), per esempio: cuscus con pomodori, rucola e tonno al naturale; riso venere con zucchine e gamberetti; insalata mista con pollo o tacchino grigliato e una fetta di pane integrale.

5) Come possiamo inserire la frutta nella nostra dieta estiva? La frutta e’ parte integrante e fondamentale di una dieta. soprattutto in estate, può essere mangiata come spuntino al mattino e al pomeriggio oppure a colazione, oltre che dopo pranzo e cena.

6) Idratazione: come, quanto e quando bere? L’ideale sarebbe bere almeno 2 litri di acqua al giorno, ma e’ ovvio che la quantità è condizionata dalle temperature esterne, cosi come dai propri fabbisogni personali, per cui in estate direi che i 2litri dovrebbero essere il minimo. Ci si può aiutare aromatizzando l’acqua con limone, zenzero, menta in modo da renderla più piacevole se ci riesce difficile bere acqua senza avere sete. 

7) Sole e abbronzatura: come possiamo difenderci con l’alimentazione? Alimenti ricchi di carotene come carote, zucca, peperoni e verdure a foglia verde scuro. Alimenti ricchi di vitamina C come  frutti di bosco, agrumi, kiwi e pomodori; alimenti ricchi di omega 3 come pesce azzurro o oleoso come il salmone e la frutta a guscio; vitamina B che si può assumere dai cereali come riso, farro, miglio. 

8) Devo rinunciare al gelato in estate? Non bisogna mai rinunciare a niente in assoluto. In estate, si può inserire un gelato (preferibilmente artigianale e o alla frutta) al posto dello spuntino ogni tanto.

9) Estate e fobia dei carboidrati: come regolarsi? La fobia dei carboidrati va risolta a prescindere dalla stagione. I carboidrati servono all’organismo come fonte di energia, per cui vanno sempre consumati nelle giuste quantità, proporzioni e tipologia 

10) Un consiglio finale per un’estate migliore? Mantenere uno stile di vita sano ed equilibrato, mangiando tutto nelle giuste quantità e proporzioni e prediligendo gli alimenti e i nutrienti migliori per il periodo estivo. Bere tanta acqua e mangiare frutta e verdura che contribuiscono all’idratazione del corpo; fare movimento (anche giocando a racchettoni o pallavolo in spiaggia con gli amici) oppure esplorando nuovi posti con escursioni a piedi; se tutto questo viene messo in pratica, possiamo liberamente concederci un gelato, un aperitivo o una cena fuori senza troppi pensieri!

Jun 28 22

Cos’è la Labioplastica? 

Giorgia Bacco

La labioplastica è una chirurgia di rimodellamento dei genitali femminili esterni che permette di restituire alle piccole e grandi labbra le dimensioni e un aspetto naturale. 

Quando le piccole labbra sono di dimensioni eccessive o hanno una forma irregolare si può effettuare una procedura di riduzione. Questa labioplastica riduttiva viene spesso associata ad interventi mirati ad ottenere un aumento volumetrico delle grandi labbra mediante infiltrazioni di acido ialuronico o di tessuto adiposo (lipofilling).

È una procedura ambulatoriale (la paziente può tornare a casa il giorno stesso e non necessita di essere ricoverata), e di breve durata (60-90 minuti).

Perché si esegue?

Le ragioni più frequenti per sottoporsi a un intervento di riduzione labiale sono:

  • Aspetto allargato e/o allungato delle labbra, che provoca disagio quando si indossano determinati indumenti
  • Disagio durante alcune attività, per esempio andare in bicicletta, camminare o durante i rapporti sessuali
  • Cambiamento di forma o dimensione delle labbra dopo il parto che provoca disagio o imbarazzo

In cosa consiste?

Questa procedura consiste nell’asportazione del tessuto in eccesso secondo la tecnica consigliata dal chirurgo (rim vs wedge excision). Le incisioni vengono chiuse con suture riassorbibili.

L’intervento di labioplastica può essere eseguito in anestesia locale, o in anestesia generale. 

E’ normale provare un lieve disagio e gonfiore per alcuni giorni dopo l’operazione. Questo solitamente migliora dopo 3-4 settimane e può essere gestito prendendo antidolorifici. Un impacco di ghiaccio può essere utilizzato per alleviare il disagio e ridurre il gonfiore, ma sempre assicurandosi che il ghiaccio non entri in contatto diretto con la pelle. Si consiglia di avvolgere il ghiaccio con un asciugamano morbido per proteggere la pelle.

Una settimana dopo l’intervento si può tornare a lavoro e si possono riprendere le normali attività quotidiane dopo 2-3 settimane. Tuttavia, si sconsiglia l’attività sessuale e attività come ciclismo ed equitazione per 4-6 settimane dopo l’intervento chirurgico. Non devono essere utilizzati tamponi interni durante le prime 6 settimane.

Le cicatrici in questa zona anatomica di solito guariscono rapidamente e tipicamente sono poco evidenti.

Come prepararsi all’intervento di labioplastica?

Si consiglia di smettere di fumare almeno 4 settimane prima dell’intervento. 

Prima dell’intervento è necessario depilare interamente l’area genitale.

Recupero postintervento

Nei giorni dopo l’intervento è importante seguire le seguenti raccomandazioni:

  • Indossare biancheria intima comoda e in fibra naturale, possibilmente non colorata. Non indossare tanga/perizoma per 6 settimane dopo l’intervento chirurgico.
  • Evitare di guidare per 1 settimana dopo l’intervento chirurgico; è necessario avere un accompagnatore per tornare a casa il giorno dell’intervento.
  • Lavare la zona interessata tutti i giorni sotto la doccia (non usare il getto diretto sulla zona interessata). Tamponare delicatamente con un asciugamano pulito e morbido.  
  • Si consiglia di riposare durante le 24 o 48 ore successive. Il ritorno al lavoro varia a seconda della persona, anche se solitamente a partire dalla prima settimana si possono gradualmente riprendere le attività quotidiane. 

Ne abbiamo parlato con la Dott.ssa Nefer Fallico

May 4 22

Il Bilinguismo: realta’ e falsi miti

Giorgia Bacco

Cosa si intende quando si parla di Bilinguismo? 

Il bilinguismo e’ l’abilità di comprendere e/o utilizzare due o più lingue. Il termine quindi comprende “multilinguismo”, ovvero la conoscenza e/o l’uso di lingue diverse. 

Un individuo bilingue non deve avere necessariamente uguale fluenza in entrambe le lingue.

Inoltre, una persona bilingue e’ in grado di utilizzare una lingua rispetto ad un’altra a seconda del contesto e dello scopo, ad esempio nel contesto familiare o scolastico. Una persona bilingue puo’ quindi non avere le medesime abilita’ comunicative in entrambe le lingue. 

Il Bilinguismo non e’ un disordine e non vi e’ evidenza scientifica per cui il Bilinguismo causi o contribuisca ad alcuna difficolta’ di linguaggio o comunicazione. 

Il linguaggio e’ fondamentale per l’identita’ di una persona, rappresentando la cultura ad esso annessa. E’ quindi fondamentale rispettare e valorizzare l’identita’ multilingue dell’individuo. 

  • L1 e L2

Quando si parla di Bilinguismo/Multilinguismo, si tratta di L1 e L2. 

Con L1 si intende la Lingua principale a cui la persona e’ esposta. Invece, con L2 si intende la lingua a cui l’individuo e’ stato esposto successivamente e viene principalmente appresa in ambiente scolastico. 

Solitamente, con L1 si intende la “lingua madre”; tuttavia, una porzione della popolazione bilingue impara due lingue nello stesso momento. Anche in queste circostanze, e’ importante ricordare che non vi e’ un perfetto equilibrio tra le lingue apprese.

  • Tipi di Bilinguismo e “fase silente”

All’interno del capitolo del Bilinguismo, e’ importante riconoscere due tipi principali: simultaneo e sequenziale.

Il bilinguismo simultaneo si presenta quando un individuo e’ esposto a due o più lingue a partire dalla nascita. “Simultaneo” tuttavia non significa esposizione eguale in tutte le lingue. Si parla di bilinguismo sequenziale quando una lingua e’ acquisita successivamente all’esposizione a L2. Questo accade principalmente in ambiente scolastico, quando i bambini vengono esposti ad una lingua differente da quella utilizzata in ambiente familiare.

Nel momento in cui un individuo viene introdotto nel sistema scolastico dove gli adulti ed i coetanei parlano una lingua differente, ci potrebbe essere una “fase silente”. 

Durante questa fase, gli individui realizzano che la comunicazione nella loro lingua madre non e’ possibile ed iniziano il processo di acquisizione di L2. La “fase silente” e’ quindi un processo naturale nell’acquisizione di una seconda lingua. 

La letteratura scientifica suggerisce che se questa fase perdura per piu’ di un mese dall’esposizione a L2, e’ importante rivolgersi ad un professionista. Tuttavia, ci sono altri studi che suggeriscono che questa fase possa prolungarsi per sei mesi fino ad un anno. E’ importante tuttavia seguire suggerimenti dei professionisti su come supportare l’individuo in questa fase per favorire lo sviluppo comunicativo. 

  • Gli effetti del Bilinguismo sui sistemi neurali

L’esposizione a più di una lingua rappresenta una grande risorsa: numerosi studi hanno cercato di investigare gli effetti del bilinguismo sui sistemi cognitivi e neurali con risultati sorprendenti. 

Numerose ricerche hanno dimostrato una forte correlazione tra bilinguismo e un efficace controllo cognitivo. Nel cervello di una persona bilingue, entrambe le lingue vengono attivate contemporaneamente (language co-activation): la costante necessita’ di gestire l’attenzione fra le 2 lingue ed di selezionare il magazzino linguistico corretto a seconda del contesto e dell’interlocutore (codeswitching), determina il rafforzamento dei meccanismi di controllo. Parlatori bilingue mostrano, infatti, una maggiore capacità di ignorare informazioni irrilevanti: il bilinguismo permette di sviluppare una maggiore concentrazione e tolleranza ai “distrattori”.

Tecniche di neuroimaging hanno inoltre permesso di evidenziare che l’apprendimento (e l’uso) di due o più lingue durante il corso della vita, stimolando aree cerebrali implicate nel processamento del linguaggio e nelle funzioni esecutive, si traduca in un aumento dei volumi e degli spessori corticali in tali regioni.

  • Protezione contro il declino cognitivo

Quando l’apprendimento di una seconda lingua avviene in età adulta, la capacità di cambiamento neuroplastico sembra essere più limitata: un’efficace acquisizione della seconda lingua potrebbe necessitare di più tempo ed impegno.

Tuttavia, gli effetti del bilinguismo non si presentano soltanto in eta’ evolutiva: uno studio condotto dall’Universita’ di York ha dimostrato che il bilinguismo contribuisce a rafforzare la riserva cognitiva e, pertanto, puo’ ritardare la comparsa di sintomi precoci in pazienti con morbo di Alzheimer. Questi risultati sembrano suggerire che il bilinguismo svolga un’azione protettiva nei confronti del deterioramento cognitivo.  

A cura di Cecilia Brogi e Nicole Luciana Zocchi